Una fisicità possente quella di Licia Lanera, prestata ai panni della
Madre, della Duramadre; Fibre Parallele firma un altro successo
di pubblico e critica e si cimenta nel racconto di un micromondo atavico, il
matriarcato della madre padrona.
Una scena siderale, dall'alto della sua macchina da cucito Duramadre
tiranneggia la sua triste corte ,tre figli maschi nudi e devoti, bramosi e
curiosi di vita ma perennemente castrati al piacere e al calore; Duramadre ha
abortito la propria femminilità per volontà o costrinzione, l'ha rinchiusa in
una gabbia insieme al quarto elemento della sua sciagurata prole, una figlia
femmina prigioniera.
Forte e voluto l’incessante
richiamo a quel Sud dell’Italia che partorisce certe madri granitiche; forte
nel colore asprigno del dialetto, forte nelle tinte scure degli abiti che la
Madre veste e cuce, forte nel rumore del vento che sembra insinuarsi sulla
scena attraverso certe imposte chiuse malamente, come davvero accade di sentire
in certi pomeriggi d’estate, in quella terra di Puglia nel Sud del Sud dei Santi.
Il testo di Riccardo Spagnulo
si inerpica su per le impervie vie di un dialetto orecchiabile e a tratti
inventato; il dialetto sporca e da forma alle parole della Madre, fino a
rendere la sensazione che quella sia l'unica lingua a lei possibile, con
quell'incedere cantilenante, duro e sgraziato.
L'ultima fatica di Fibre
Parallele arriva come una caleidoscopica celebrazione dell'universo donna: la femminilità bistrattata, mortificata, resa
crudele e dura come pietra, costretta a passare per le forche caudine della
sofferenza che trasforma e trasfigura, capace di rendere anche il più
vulnerabile degli esseri umani una belva sterile, una Duramadre.
E’ questo un lavoro poliedrico che si presta a molteplici
interpretazioni, tutte plausibili, toccando certi nervi scoperti dell’abisso
umano che spesso si fa fatica ad indagare, tanto nella realtà quanto sulla
scena: il perché di certe personalità deviate, il perché dei rapporti malati, della
morbosità dei legami di sangue, dell’amore materno che si incrina e diviene catena.
Nulla sembra essere stato affidato al caso della creazione, ogni
incedere scenico appare frutto di una ricerca minuziosa, una sapiente commistione
di suggestioni che rimanda alle
gigantesche figure di Bernarda Alba e della brechtiana Madre Courage,
nonostante l’intento della prima ispirazione, come dichiara l’autore, affondi
le sue radici ne La ginestra di
Giacomo Leopardi. Intenzione difficilmente rintracciabile, se non del tutto
sublimata.
Un finale troppo lirico annuncia
che la speranza di assurgere a nuova vita esiste anche tra le pareti asfittiche
di una casa prigione; rimane però da capire come l’abusata progenie affronterà
il mondo al di là delle mura. Qualcosa, forse, ancor più crudele della
Duramadre.
Pamela Del Grosso
Teatro Palladium, Roma
21 marzo 2013
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