Janina Turek, la donna che spiava se
stessa, all’inizio dello spettacolo, sul palco, non c’è.
Non ci sono i
suoi 748 quaderni, non c’è la sua
ossessione, non c’è Cracovia, non c’è la densità della sua vicenda; ci sono
invece due artisti che giocano a morire, un uomo ed una donna che hanno scelto
una chiave di lettura che sorprende per raccontare ciò che di fatto non
tradurranno, mantenendosi fedeli tanto a Reality, al testo di Szczygiel quanto
alle intenzioni di Janina Turek. Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si
avventurano nell’eterno dilemma di ciò che possa considerarsi vero e cosa no,
del pericolo sempre in agguato dell’esteriorità, della ricerca affannosa della
naturalezza e, come i grandi Maestri della Ricerca Teatrale del Novecento,
tentano di risalire all’origine della credibilità; lo fanno sperimentandosi in
un metateatro senza retorica, tra serio e faceto. Janina Turek muore per strada
colpita da infarto dopo aver passato un’intera esistenza ad annotare
analiticamente la propria quotidianità, parlando di se stessa in terza persona,
con quell’algida distanza che certe forme grammaticali sanno perfettamente
rendere; mai un commento, mai una considerazione personale, mai la traccia di
un’emozione. I due attori si interrogano reciprocamente rispetto alla qualità
della caduta a terra, vogliono immortalare Janina mentre muore; argomentano a
proposito della peculiarità del tonfo, dell’espressione del volto nel momento
in cui il corpo giace sul marciapiede; agiscono con fare dissacratorio e
clownesco, assumendosi il rischio e la responsabilità di trattare la morte con
tanta leggerezza.
Non è che uno dimostra che sta per
morire..muore. Le parole della Deflorian sanciscono un cambio di registro
nella vicenda; la scena si sposta dal centro verso destra e poi verso sinistra,
dove gli oggetti che raccontano Janina Turek parlano più di quanto saprebbe
fare una magistrale drammaturgia: c’è il tavolo della cucina che ha sorretto
tazze di caffè nero e gomiti, ci sono le sedie, le stoviglie dei pasti, c’è lo
zerbino del portone nella via Parkova.
Durante un’intervista rilasciata tre anni
fa in occasione della prima di Reality, Daria Deflorian disse che l’urgenza più
grande nella creazione di questo lavoro era stata la necessità di trattenere il
pensiero, il bisogno di esposizione a cui siamo non solo abituati ma
condannati; questa urgenza si respira effettivamente per 50 minuti, un tempo
relativamente breve dove non viene prostituita nessuna spettacolarizzazione,
dove il ricordo di tanta sbalorditiva normalità viene celebrato con garbo e
inconfutabile talento.
Pamela Del Grosso
Teatro Palladium, Roma
7 aprile 2013
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