martedì 25 novembre 2014

Nunca más di Pierluigi Bevilacqua

Quando le parole non servono
 
 
Il male è un mistero e, in quanto tale, non può essere rappresentato.
Paul Ricoeur, filosofo francese del primo ‘900, aveva pienamente ragione. Come riproporre il male, quale chiave utilizzare, quali parole? È stato probabilmente interrogandosi su questi spinosi quesiti che il regista pugliese Pierluigi Bevilacqua ha creato la partitura di Nunca màs, lavoro corale andato in scena il 19 e 20 giugno al Teatro Furio Camillo. Uno spettacolo a suggello del lavoro di un anno degli allievi del corso propedeutico avanzato dell’Accademia Teatrale di Roma Sofia Amendolea.

La circostanza degli eventi trova un macabro riscontro ai giorni nostri, come se la Storia, beffarda, avesse architettato una sinistra coincidenza su cui non si può fare a meno di riflettere, con incredulità e amarezza.
25 giugno 1978, mentre all’interno dello stadio Monumental di Buonos Aires si disputa la finale per la Coppa del Mondo Argentina-Olanda, al di fuori di quelle mura continua il piano di sterminio da parte della dittatura militare di 30.000 esseri umani, sotto la guida di Jorge Rafael Videla.
Succede anche oggi, lo scenario cambia, la ferocia no.
Brasile. Dilma Rousseff, presidente a capo del paese, richiama all’ordine e alla calma le migliaia di persone riversatesi nelle strade e nelle piazze per manifestare contro l’evento del calcio spettacolo a cui sono stati destinati ingenti e numerosi fondi, in barba all’orrore delle favelas, alla fame, alla lotta per la sopravvivenza.
A distanza di 35 anni accade di nuovo: all’interno dello stadio si gioca, per le strade si muore.
Non è un genocidio ma il male assurge a medesima triste dignità, qualsiasi sia la forma attraverso cui viene perpetrato.

La tragedia dei desaparesidos, un dolore a cui non è stata ancora messa la parola fine, rivive sul parquet consunto del piccolo teatro di periferia. Pierluigi Bevilacqua ha realizzato un affresco, ha deciso di lavorare per immagini, utilizzando sequenze visive e sonore raccordate fra loro da suggestivi stralci di testo. Ma la parola, in questo spettacolo, non è protagonista; il tema trattato non esige grandi soliloqui. Reclama, semmai, la potenza evocativa del ricordo, affinché tutto questo non accada mai più, Nunca màs.
Nei discorsi dei militari aguzzini dilaga il tema della quotidianità: una birra, le risate, qualche commento a proposito della partita che si sarebbe disputata quella sera stessa. Devono assolvere al noioso compito del rastrellamento dei Montoneros, la resistenza armata che si oppone al regime, e di tanti altri poveri ragazzi,  militanti e non.

Un pallone da calcio è il leitmotiv che accompagna le azioni sulla scena. La corrispondenza fra il gioco la  passione, in ogni sua possibile declinazione, è tristemente affascinante.
I soldati picchiano, gridano, abusano di tutto ciò che incontrano sul proprio cammino. Sono sordi alle preghiere dei dannati e impassibili di fronte alle proprie coscienze, mossi da una bieca subordinazione che li allontana dall’essere uomini. L’Armada mi ha insegnato a distruggere, non a costruire. Probabilmente in questa frase pronunciata da uno dei militari è possibile rintracciare la genesi di tanta efferata crudeltà.

L’immagine che il regista è riuscito a costruire per mezzo delle donne è di una bellezza emozionante. Umiliate fino all’umano limite della sopportazione, le Madri di Plaza de Mayo risorgono dalle proprie ceneri sfidando il regime, il potere, l’inferno. Quello stesso inferno che ha ingoiato figli e figlie, sorelle, nipoti, fratelli, mariti, amici. Cadono e si rialzano continuamente, in una nefasta danza di vita-morte-vita, come solo una donna sa, può, deve fare. I bianchi pañuelos , i bianchi fazzoletti simbolo delle donne argentine, nella visione immaginifica di Bevilacqua, divengono ora laccio di tortura, ora gagliardetto di rivolta, mentre le note di Assassin’s Tango di John Powel creano un’atmosfera densa e prepotente da cui è difficile poter prendere le distanze.
Le stesse donne che non si sono mai arrese chiudono l’auspicio di Nunca Màs. Avanzano verso il pubblico, fiere, stremate ma mai sconfitte;  rivendicano la forza degli occhi licenziati senza motivo, senza ragione dai volti dei propri cari. Cantano in un tangibile crescendo di commozione le parole di Violetta Parra, la cantora della guerra. E si congedano.
"Gracias a la vida que me ha dado tanto"


Pamela Del Grosso

regia Pierluigi Bevilacqua
con Raffaella Trivisonne, Giorgia Guarnieri, Giovanna Paladini, Raffaele Calandrelli, Marcella Santomassimo, Irene Leone, Emanuele Massaioli, Luca D'Onofri, Nausica Benigni, Arianna Matteucci, Giulia Montanari
costumi Monica Raponi
fotografie Fabrizio Coperchi

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