Non so cosa sia stato , quello che so è che ha funzionato.
Forse in carcere l’evasione data dal teatro ha il sapore , i
colori , il suono che c’erano ieri sera al Palladium..non so darmi una
spiegazione diversa rispetto alla sensazione provata , avvolgente come un manto
, densa dall’inizio alla fine.
Mi capita di rado di poter applaudire , in teatro , negli
ultimi tempi ; purtroppo , aggiungerei.
Colpa anche del proverbiale cinismo che mi caratterizza e
che mi fa vedere cose e persone attraverso un filtro spesso ed inclemente , che
passa in rassegna il micro ed il macro fino a farne poltiglia. La maggior parte
delle volte , in mano , non mi resta nulla ; ieri sera , invece , mi sono alzata dalla poltrona con una bella
manciata di crusca ed è stato un piacevole accadimento.
Credo e confido nel termometro oggettivo della mia
soggettività , della mia capacità emozionale ed ho applaudito Mercuzio che non
vuole morire addirittura alzandomi in piedi , attribuendo a questo piccolo e semplice
rituale un grande valore celebrativo.
L’eccitazione era già presente nel foyer , ho avuto la
sensazione di trovarmi nel bel mezzo di una
grande bagarre , colorata , immotivata e già a partire da quel momento
qualcosa , forse , stava accadendo.
Un’euforia immotivata è bella in quanto tale o seducente in
quanto ti attraversa senza che tu possa chiederti il perchè? Quell’atmosfera
compartecipata e caotica risultava , nello stesso tempo , voluta ed orchestrata
ma anche endogena e spontanea , incontenibile come qualcosa che non può avere
argine semplicemente perchè ci si aspetta che non ne abbia. L’elemento della
coralità che Punzo ha voluto e creato si snodava già a partire da lì , dal
foyer , reso così anni 30 , così spumeggiante e nostalgico , dalla presenza
delle piccole ballerine bambine , mute ,
occhi sognanti , visibilmente sovraeccitate , perfette in quanto non ancora
donne ma desiderio incarnato di femminilità , citando il Maestro Carmelo Bene!
Qualcuno mi aveva perentoriamente intimato di appendere al
chiodo , almeno per una sera , schemi , diagrammi e complicate strutture
interpretative..figli e figliastri dell’inculturazione , per intenderci! In
realtà non è stato difficile in quanto ben poco c’era da capire dovendo
ricorrere all’intelletto , a carta e penna.
Così , mentre mi capitava di sentirmi in balìa di tante
enumerate cose buone , la mia mente cercava il ricordo dell’ultima volta in cui
mi capitò di sentirmi così rapita e assorbita. Breve carrellata di ombre , di
recente poco o nulla ; di colpo mi avvinghio forte ad un barlume che mi
attraversa la mente : Teatro Capocroce , cinque anni fa , Giuliana Musso ,
Tanti saluti. La vita come miracolo o scontatezza , quelle cose che ,
retoricamente , assurgono a dignità solo nel momento del trapasso , il momento
dei quanto sono stata stupida , quanto tempo ho sprecato, potessi ancora ,
amerei di più. E poi i saluti , tanti , gli ultimi , a suggellare l’addio.
Non una messa in scena quella di Punzo , bensì una messa in
opera ; dimensioni volutamente esagerate , ridondanza , voluttuosità , spasmo
quasi carnale. E’ stato un privilegio poter vedere tutto , il lavoro che non è
preparatorio ma diviene direttamente materiale scenico vivo e vero.
Punzo si è preso la non facile bega di far salire sul palco
del Palladium tutti i Mercuzio che non vogliono morire , ognuno con la propria
sacrosanta ragione , inoppugnabile , inattaccabile.
Chissà se in carcere l’avverbio “perchè” ha lo stesso senso
che gli si attribuisce al di qua delle mura , al di qua della Fortezza?
Associo subito quel che vedo ad un gigantesco carillon , mia
croce e mia delizia ; non so dove guardare , vorrei con lo sguardo poter
fermare tutto in una sola , unica istantanea. Ma non si può , non si fa , non
si deve.
Mi accoglie Mercuzio , il poeta , il filosofo , il sognatore
; si batte a duello , Tebaldo lo incalza. Mi guarda e mi racconta qualcosa a
proposito di un sorriso ; mi fissa dritto negli occhi e perciò mi
imbarazza..che sciocca.
L’opulenza della scena , così roboante , così materica , è
sbalorditiva , soprattutto in relazione alla pochezza che ha attraversato
quello stesso palcoscenico , pochi giorni prima.
Un mefistofelico angelo di bianco vestito suona un
pianoforte ; è una figura a me assai cara , ammaliante. Forse è solo la
suggestione del Faust che sempre m’accompagna. E invece no , non mi sono
ingannata! Punzo , aprendo le porte ai grandi reietti ed ai grandi tormentati
della storia , accoglie anche Faust nelle parole di Ferdinando Pessoa : “ se il pensare è un tormento , nessuno ha
sofferto come te”. Ho un sussulto, penso sia giusto trovarmi lì.
L’angelo mefistofelico sembra avere un diverso strumento per
ogni azione vitale , come se ogni anelito richiedesse una specifica modulazione
musicale , unica ed irripetibile nel suo genere.
I miei occhi vedono una fenice dietro il pianoforte e mi
piace l’idea , anche se il buon senso vorrebbe che quel fantoccio dietro il
pianoforte fosse un fenicottero. Ma il buon senso è rimasto fuori , in piazza , mi aspetta lì ; io sono sola ,
posso fare quello che voglio.
La fenice ben si sposa con l’angelo di Mefistofele , quella
diavoleria del risorgere dalle proprie ceneri non è roba per tutti! A
completare il mio micro quadro abitato dal pianista e dalla fenice , c’è la
tela accanto al pianoforte , l’immagine di uno scheletro scanzonato e beffardo
; i miei occhi ingannatori ed ingannati mi dicono che è “La Morte” , la
tredicesima carta dei Tarocchi , la “carta senza nome” che nell’arte
divinatoria simboleggia trasformazione o termine , a seconda dei casi. Il
tredicesimo arcano accanto ad una fenice che sorveglia , imperturbabile,lo
sciorinare di un pianoforte.. Chissà in carcere per quali inferni
passa la trasformazione , chissà se è lecito pensare alla fine , chissà che forma
ha la rinascita..
Addirittura Stanislavskij si è affacciato alla mia mente
ieri sera! E’ stato liberatorio non dover dar conto di nulla se non delle
vibrazioni che ti passano accanto , sulla pelle ; mi accorgo che dovrei farlo
più spesso.
Un giovanissimo Bulgakov entra nel Teatro d’Arte di Mosca e
vede , incredulo , un attore sulla scena che declama una dichiarazione d’amore
in bicicletta , pedalando come un forsennato ; un attimo dopo la bicicletta non
c’è più , scompare dalla scena , e l’attore declama la stessa dichiarazione
d’amore reggendo fra le mani un mazzo di fiori.
“Perchè?” domanda basito Bulgakov al Maestro Stanislavskij.
“Perchè la bicicletta , ora , è dentro di lui” risponde
Stanislavsij , “l’attore ha acquisito il ritmo ed il tempo della bicicletta ,
ne conserva il senso e scarta l’esteriorità”.
E’ la verità della passione , è la rintracciabilità
dell’ardore ; l’attore di Stanislavskij le interiorizza , l’uomo di Armando
Punzo le mette in opera.
Avremmo forse visto lo stesso volto imperlato di sudore ,
l’espressione contrita e la voce rotta dall’affanno se l’attore mestierante
avesse effettuato un lavoro a sottrarre ; probabilmente però Punzo non puntava
ad un esercizio di stile ed ha scelto di mantenere la bieca umanità
dell’artificio scenico non cesellato . E se buona norma avrebbe voluto che
Mercuzio, pesante e pugnalato, esistesse solo nella mente tormentata di Otello
, Punzo ce lo fa invece vedere così com’è , per quello che è. Imperfetto. Umano
. Vero.
Chissà quanto dura una notte in cella , chissà cosa
riecheggia, la notte , negli spazi del carcere di Volterra , nelle notti di
tutti i carceri del mondo..?
“La mia notte non dura più di mezz’ora” recita , monologante
, l’uomo grammofono; parla del sonno , parla dei sogni , che siano essi ,
davvero , l’unico momento di libertà , m da noi stessi?
Le tele cambiano , corrono , si mescolano , si alternano ,
scompaiono , tornano ; le immagini di una Volterra altèra e mistica la fanno da
padrone , scomposte , spaccate , un cubismo artigianale.
I tanti clowns , psicologicamente inquietanti , si aggirano
per e sulla scena , affaccendati e sornioni ; accendono in me l’analogia con il
cigno , la sua proverbiale dualità , seduzione e terrore. Uno fra loro ,
volteggiando in un lettino di bimbo , fraseggia una sequela di “niente” :
niente amore , niente perdono , niente per me , niente parodia , niente dolore
, niente noia , niente domani.
Chissà che sapore ha il niente per chi ha perso così tanto
da non poterne tener più conto? Chissà come cambia , in carcere , l’ordine
piramidale che si attribuisce al valore delle cose?
Due acrobati si amano sul fondo della scena , appesi ad un
gancio , sospesi a mezz’aria ; camminano sulla parete posticcia come su di un
piano parallelo al mio , che i miei stupidi piedi li tengo ben ancorati a
terra. La mia mente veloce veloce affastella , lesta, l’ennesima analogia ed io
non stacco gli occhi da loro , dagli acrobati ; li guardo , rapita ,
catalizzano la mia attenzione di bambina. “Il cielo sopra Berlino” aleggia
davanti ai miei occhi , il bianco e il nero degli acrobati si attaccano al
ricordo del triste volo di Marion , povero angelo posticcio dalle ali di
gallina.
“Davvero mi perdonate tutto?” Lo dice qualcuno , sulla scena , e la frase mi
spacca da dentro. Certo che ti perdoniamo tutto , siamo colpevoli tanto quanto
te , solo che non ci hanno ancora scoperto , tu sei stato solo più sfortunato
nella conta delle carte del destino. Siamo colpevoli per la tua colpa e perchè
omettiamo la nostra , colpevoli e complici. Non lo vedi il sangue che sporca le
nostre mani , il guanto carminio della vergogna?
Mi sento Mercuzio e Tebaldo all’unisono e mi gira la testa.
Ma forse è solo l’aria densa.
Le tante Giulietta morte sono le Ophelia di Millais che annega cantando ; la tela ,di
fatto, in scena non c’è ma popola , sovente , i miei pensieri . E’ morte ,
dolore , innocenza , inverno.
L’uomo enigma ci ascolta con un orecchio gigante ; ascolta
le nostre voci di dentro , quelle recondite , tutti i pensieri che restano giù
in fondo al pozzo a marcire. L’uomo enigma ci intima di ascoltare , di
ascoltare tutto , almeno per una volta , almeno fino a che il carrozzone
resterà in scena.
Che rumore fanno i pensieri dietro le sbarre? D’istinto
penso al sapore del ferro , al freddo , ad un suono metallico.
Punzo ci ha chiesto di portare un libro e tutti l’abbiamo
tenuto in grembo per l’intera durata dello spettacolo , come una scolaresca
diligente.
Cosa ci rappresenta? Cosa vorremmo parlasse di noi al nostro
posto? Cosa vorremmo raccontare per il semplice piacere della condivisione?
Cosa vorremmo rimanesse di noi , quale pagina eterna? Quali parole e quali
immagini siamo , di quali parole e di quali immagini siamo figli? Di quali
segni è figlio il nostro pensiero? Quali e quanti purgatori ci toccano ancora ,
per noi al di qua della Fortezza? Perchè Mercuzio non vuole morire?
L’istrione Punzo , o chi per lui , ha creato l’aspettativa e
ha fatto si che questa si sciogliesse nell’aspettativa stessa , così da rendere
ognuno consapevole del senso attribuito al proprio guanto , al proprio libro.
Punzo ha chiesto inoltre di portare una valigia vuota ; i
più fortunati se la saranno riportata via stracolma. Io la valigia non ce
l’avevo ; avevo solo la pelle , credo però mi sia bastata.
Sul finire dello spettacolo , un anatema è volato giù dalla
galleria , scagliandosi sulla platea e su tutto il roboante circo . “Io non ho
sentito niente , voglio indietro i miei soldi!” ha urlato a voce piena quella
che credo fosse una signora; incasello , veloce , una serie di considerazioni :
ci reputiamo davvero così anticonformisti ed alternativi per giudicarci pronti
ad uno spettacolo come questo? Il teatro di parola , così duro a morire , deve
davvero morire?
Cara signora , il tuo biglietto sarebbe davvero valso i
soldi che hai speso se solo ti fossi disimpegnata un attimo dal voler cogliere
il senso e ti fossi lasciata attraversare e schiaffeggiare dalla sensazione.
Pamela Del Grosso
Teatro Palladium, Roma
5 marzo 2013
Pamela Del Grosso
Teatro Palladium, Roma
5 marzo 2013
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