giovedì 20 novembre 2014

Mercuzio non vuole morire


Non so cosa sia stato , quello che so è che ha funzionato.
 
 

Forse in carcere l’evasione data dal teatro ha il sapore , i colori , il suono che c’erano ieri sera al Palladium..non so darmi una spiegazione diversa rispetto alla sensazione provata , avvolgente come un manto , densa dall’inizio alla fine.

Mi capita di rado di poter applaudire , in teatro , negli ultimi tempi ; purtroppo , aggiungerei.

Colpa anche del proverbiale cinismo che mi caratterizza e che mi fa vedere cose e persone attraverso un filtro spesso ed inclemente , che passa in rassegna il micro ed il macro fino a farne poltiglia. La maggior parte delle volte , in mano , non mi resta nulla ; ieri sera , invece ,  mi sono alzata dalla poltrona con una bella manciata di crusca ed è stato un piacevole accadimento.

Credo e confido nel termometro oggettivo della mia soggettività , della mia capacità emozionale ed ho applaudito Mercuzio che non vuole morire addirittura alzandomi in piedi , attribuendo a questo piccolo e semplice rituale un grande valore celebrativo.

L’eccitazione era già presente nel foyer , ho avuto la sensazione di trovarmi nel bel mezzo di una  grande bagarre , colorata , immotivata e già a partire da quel momento qualcosa , forse , stava accadendo.

Un’euforia immotivata è bella in quanto tale o seducente in quanto ti attraversa senza che tu possa chiederti il perchè? Quell’atmosfera compartecipata e caotica risultava , nello stesso tempo , voluta ed orchestrata ma anche endogena e spontanea , incontenibile come qualcosa che non può avere argine semplicemente perchè ci si aspetta che non ne abbia. L’elemento della coralità che Punzo ha voluto e creato si snodava già a partire da lì , dal foyer , reso così anni 30 , così spumeggiante e nostalgico , dalla presenza delle  piccole ballerine bambine , mute , occhi sognanti , visibilmente sovraeccitate , perfette in quanto non ancora donne ma desiderio incarnato di femminilità , citando il Maestro Carmelo Bene!

Qualcuno mi aveva perentoriamente intimato di appendere al chiodo , almeno per una sera , schemi , diagrammi e complicate strutture interpretative..figli e figliastri dell’inculturazione , per intenderci! In realtà non è stato difficile in quanto ben poco c’era da capire dovendo ricorrere all’intelletto , a carta e penna.

Così , mentre mi capitava di sentirmi in balìa di tante enumerate cose buone , la mia mente cercava il ricordo dell’ultima volta in cui mi capitò di sentirmi così rapita e assorbita. Breve carrellata di ombre , di recente poco o nulla ; di colpo mi avvinghio forte ad un barlume che mi attraversa la mente : Teatro Capocroce , cinque anni fa , Giuliana Musso , Tanti saluti. La vita come miracolo o scontatezza , quelle cose che , retoricamente , assurgono a dignità solo nel momento del trapasso , il momento dei  quanto sono stata stupida , quanto tempo ho sprecato, potessi ancora , amerei di più. E poi i saluti , tanti , gli ultimi , a suggellare l’addio.

Non una messa in scena quella di Punzo , bensì una messa in opera ; dimensioni volutamente esagerate , ridondanza , voluttuosità , spasmo quasi carnale. E’ stato un privilegio poter vedere tutto , il lavoro che non è preparatorio ma diviene direttamente materiale scenico vivo e vero.

Punzo si è preso la non facile bega di far salire sul palco del Palladium tutti i Mercuzio che non vogliono morire , ognuno con la propria sacrosanta ragione , inoppugnabile , inattaccabile.

Chissà se in carcere l’avverbio “perchè” ha lo stesso senso che gli si attribuisce al di qua delle mura , al di qua della Fortezza?

Associo subito quel che vedo ad un gigantesco carillon , mia croce e mia delizia ; non so dove guardare , vorrei con lo sguardo poter fermare tutto in una sola , unica istantanea. Ma non si può , non si fa , non si deve.

Mi accoglie Mercuzio , il poeta , il filosofo , il sognatore ; si batte a duello , Tebaldo lo incalza. Mi guarda e mi racconta qualcosa a proposito di un sorriso ; mi fissa dritto negli occhi e perciò mi imbarazza..che sciocca.

L’opulenza della scena , così roboante , così materica , è sbalorditiva , soprattutto in relazione alla pochezza che ha attraversato quello stesso palcoscenico , pochi giorni prima.     

Un mefistofelico angelo di bianco vestito suona un pianoforte ; è una figura a me assai cara , ammaliante. Forse è solo la suggestione del Faust che sempre m’accompagna. E invece no , non mi sono ingannata! Punzo , aprendo le porte ai grandi reietti ed ai grandi tormentati della storia , accoglie anche Faust nelle parole di Ferdinando Pessoa :  “ se il pensare è un tormento , nessuno ha sofferto come te”. Ho un sussulto, penso sia giusto trovarmi lì.

L’angelo mefistofelico sembra avere un diverso strumento per ogni azione vitale , come se ogni anelito richiedesse una specifica modulazione musicale , unica ed irripetibile nel suo genere.

I miei occhi vedono una fenice dietro il pianoforte e mi piace l’idea , anche se il buon senso vorrebbe che quel fantoccio dietro il pianoforte fosse un fenicottero. Ma il buon senso è rimasto fuori  , in piazza , mi aspetta lì ; io sono sola , posso fare quello che voglio.

La fenice ben si sposa con l’angelo di Mefistofele , quella diavoleria del risorgere dalle proprie ceneri non è roba per tutti! A completare il mio micro quadro abitato dal pianista e dalla fenice , c’è la tela accanto al pianoforte , l’immagine di uno scheletro scanzonato e beffardo ; i miei occhi ingannatori ed ingannati mi dicono che è “La Morte” , la tredicesima carta dei Tarocchi , la “carta senza nome” che nell’arte divinatoria simboleggia trasformazione o termine , a seconda dei casi. Il tredicesimo arcano accanto ad una fenice che sorveglia , imperturbabile,lo sciorinare di un pianoforte.. Chissà in carcere per quali inferni passa la trasformazione , chissà se è lecito pensare alla fine , chissà che forma ha la rinascita..

Addirittura Stanislavskij si è affacciato alla mia mente ieri sera! E’ stato liberatorio non dover dar conto di nulla se non delle vibrazioni che ti passano accanto , sulla pelle ; mi accorgo che dovrei farlo più spesso.

Un giovanissimo Bulgakov entra nel Teatro d’Arte di Mosca e vede , incredulo , un attore sulla scena che declama una dichiarazione d’amore in bicicletta , pedalando come un forsennato ; un attimo dopo la bicicletta non c’è più , scompare dalla scena , e l’attore declama la stessa dichiarazione d’amore reggendo fra le mani un mazzo di fiori.

“Perchè?” domanda basito Bulgakov al Maestro Stanislavskij.

“Perchè la bicicletta , ora , è dentro di lui” risponde Stanislavsij , “l’attore ha acquisito il ritmo ed il tempo della bicicletta , ne conserva il senso e scarta l’esteriorità”.

E’ la verità della passione , è la rintracciabilità dell’ardore ; l’attore di Stanislavskij le interiorizza , l’uomo di Armando Punzo le mette in opera.

Avremmo forse visto lo stesso volto imperlato di sudore , l’espressione contrita e la voce rotta dall’affanno se l’attore mestierante avesse effettuato un lavoro a sottrarre ; probabilmente però Punzo non puntava ad un esercizio di stile ed ha scelto di mantenere la bieca umanità dell’artificio scenico non cesellato . E se buona norma avrebbe voluto che Mercuzio, pesante e pugnalato, esistesse solo nella mente tormentata di Otello , Punzo ce lo fa invece vedere così com’è , per quello che è. Imperfetto. Umano . Vero.

Chissà quanto dura una notte in cella , chissà cosa riecheggia, la notte , negli spazi del carcere di Volterra , nelle notti di tutti i carceri del mondo..?

“La mia notte non dura più di mezz’ora” recita , monologante , l’uomo grammofono; parla del sonno , parla dei sogni , che siano essi , davvero , l’unico momento di libertà , m da noi stessi?

Le tele cambiano , corrono , si mescolano , si alternano , scompaiono , tornano ; le immagini di una Volterra altèra e mistica la fanno da padrone , scomposte , spaccate , un cubismo artigianale.

I tanti clowns , psicologicamente inquietanti , si aggirano per e sulla scena , affaccendati e sornioni ; accendono in me l’analogia con il cigno , la sua proverbiale dualità , seduzione e terrore. Uno fra loro , volteggiando in un lettino di bimbo , fraseggia una sequela di “niente” : niente amore , niente perdono , niente per me , niente parodia , niente dolore , niente noia , niente domani.

Chissà che sapore ha il niente per chi ha perso così tanto da non poterne tener più conto? Chissà come cambia , in carcere , l’ordine piramidale che si attribuisce al valore delle cose?

Due acrobati si amano sul fondo della scena , appesi ad un gancio , sospesi a mezz’aria ; camminano sulla parete posticcia come su di un piano parallelo al mio , che i miei stupidi piedi li tengo ben ancorati a terra. La mia mente veloce veloce affastella , lesta, l’ennesima analogia ed io non stacco gli occhi da loro , dagli acrobati ; li guardo , rapita , catalizzano la mia attenzione di bambina. “Il cielo sopra Berlino” aleggia davanti ai miei occhi , il bianco e il nero degli acrobati si attaccano al ricordo del triste volo di Marion , povero angelo posticcio dalle ali di gallina.

“Davvero mi perdonate tutto?”  Lo dice qualcuno , sulla scena , e la frase mi spacca da dentro. Certo che ti perdoniamo tutto , siamo colpevoli tanto quanto te , solo che non ci hanno ancora scoperto , tu sei stato solo più sfortunato nella conta delle carte del destino. Siamo colpevoli per la tua colpa e perchè omettiamo la nostra , colpevoli e complici. Non lo vedi il sangue che sporca le nostre mani , il guanto carminio della vergogna?

Mi sento Mercuzio e Tebaldo all’unisono e mi gira la testa. Ma forse è solo l’aria densa.

Le tante Giulietta morte sono le Ophelia di  Millais che annega cantando ; la tela ,di fatto, in scena non c’è ma popola , sovente , i miei pensieri . E’ morte , dolore , innocenza , inverno.

L’uomo enigma ci ascolta con un orecchio gigante ; ascolta le nostre voci di dentro , quelle recondite , tutti i pensieri che restano giù in fondo al pozzo a marcire. L’uomo enigma ci intima di ascoltare , di ascoltare tutto , almeno per una volta , almeno fino a che il carrozzone resterà in scena.

Che rumore fanno i pensieri dietro le sbarre? D’istinto penso al sapore del ferro , al freddo , ad un suono metallico.

Punzo ci ha chiesto di portare un libro e tutti l’abbiamo tenuto in grembo per l’intera durata dello spettacolo , come una scolaresca diligente.

Cosa ci rappresenta? Cosa vorremmo parlasse di noi al nostro posto? Cosa vorremmo raccontare per il semplice piacere della condivisione? Cosa vorremmo rimanesse di noi , quale pagina eterna? Quali parole e quali immagini siamo , di quali parole e di quali immagini siamo figli? Di quali segni è figlio il nostro pensiero? Quali e quanti purgatori ci toccano ancora , per noi al di qua della Fortezza? Perchè Mercuzio non vuole morire?

L’istrione Punzo , o chi per lui , ha creato l’aspettativa e ha fatto si che questa si sciogliesse nell’aspettativa stessa , così da rendere ognuno consapevole del senso attribuito al proprio guanto , al proprio libro.

Punzo ha chiesto inoltre di portare una valigia vuota ; i più fortunati se la saranno riportata via stracolma. Io la valigia non ce l’avevo ; avevo solo la pelle , credo però mi sia bastata.

Sul finire dello spettacolo , un anatema è volato giù dalla galleria , scagliandosi sulla platea e su tutto il roboante circo . “Io non ho sentito niente , voglio indietro i miei soldi!” ha urlato a voce piena quella che credo fosse una signora; incasello , veloce , una serie di considerazioni : ci reputiamo davvero così anticonformisti ed alternativi per giudicarci pronti ad uno spettacolo come questo? Il teatro di parola , così duro a morire , deve davvero morire?

Cara signora , il tuo biglietto sarebbe davvero valso i soldi che hai speso se solo ti fossi disimpegnata un attimo dal voler cogliere il senso e ti fossi lasciata attraversare e schiaffeggiare dalla sensazione.


Pamela Del Grosso

Teatro Palladium, Roma
5 marzo 2013

Nessun commento:

Posta un commento