martedì 25 novembre 2014

Fiori di miniera


 
C’è una sala gremita, si paga un biglietto d’ingresso e in più è giovedì. E piove. Per giunta gli attori non hanno neanche studiato a dovere: hanno ancora il copione in mano!
Un piccolo, anonimo miracolo italiano? No. È il teatro contemporaneo al Teatro Valle Occupato. È Fausto Paravidino che porta in scena la terza mise en espace del progetto Orazio, il laboratorio di scrittura iniziato più di un anno fa e che, attraverso la collaborazione con Fabula mundi, Premio letterario di respiro internazionale, punta i riflettori su una drammaturgia di nicchia e, in quanto tale, di grande spessore e vivo interesse.

Dopo l’incursione argentina di Besame mucho e del nostrano Homicide House, questa volta sul palco del Valle arriva BÁNYAVIRÁG-Fiori di miniera, pluripremiato testo ungherese dello scrittore Csaba Székely. Siamo in un paesino minerario della Transilvania; l’intera vicenda si svolge nell’unico ambiente visibile al pubblico: una cucina, crocevia dell’umanità carnale e della frustrazione che albergano negli abitanti della piccola comunità. Un intreccio di storie che compongono “la storia”. Tratti duri, tinte forti, humor nero. Bella e avvenente, Ilonka; rude come un colpo di scure, Ivan. Siamo a casa dei due fratellastri; nell’altra stanza c’è il vecchio, il padre malato che tiene incatenati entrambi i figli ad un capezzale sterile, senza pena né amore. Transitano all’interno dell’ambiente il dottore e una coppia di vicini di casa, Irma e Mihály.
Come accade nella realtà senza stucchi e senza velluti, laddove aleggiano insoddisfazione e forze represse, si percepisce nell’aria un’energia particolare, palpabile, potente, malsana. Il ritmo della vicenda punta subito in alto, un crescendo veloce che determina un ritmo sostenuto già dalle prime battute. Ognuno urla e recrimina la propria delusione, reclama il proprio posto nel mondo, maledice la propria vita incastrata in una cittadina grigia e triste, proprio come i diamanti prigionieri della miniera.

La regia di Andrea Collavino restituisce un’ambientazione classica ai limiti della sacralità, un adattamento che, per stile ed atmosfere, richiama l'immaginario apollineo del celeberrimo  Zio Vanja. E non a caso.  È lo stesso Csaba Székely a rivelare, a fine spettacolo, la genesi di Fiori di miniera, episodio che compone la trilogia Storie di miniera.

«Partecipai ad un contest letterario - racconta Székely - una sorta di concorso per giovani drammaturghi. Decisi di ispirarmi a Zio Vanja, con l’urgenza di raccontare, però, piccole storie della mia terra. Da qui, il giusto compromesso: rendere omaggio a Cechov mantenendo inalterati nomi  dei personaggi e clima degli ambienti, e nello stesso tempo dare respiro alla mia urgenza di narrare il micromondo dei villaggi di minatori, posti spesso ai limiti della realtà, quella Transilvania che viene omessa nelle guide turistiche, dove la percentuale di suicidi equivale al doppio di quella dell’intera Romania. Quella terra di mezzo dove l’alcool diventa compagno di vita già a undici anni; dove, nel bosco, è più facile trovare gente impiccata che taglialegna intenti al proprio mestiere. Una terra che le donne lasciano. Perché loro, le donne, hanno il coraggio di farlo.»

Gli attori in fieri di Paravidino sono bravi, puntuali, efficaci; l’escamotage del copione a vista è funzionale, più che altro, a conferire alla rappresentazione valore di work in progress; di fatto, gli interpreti, nonostante la sana artigianalità del lavoro proposto, non sembrerebbero averne bisogno. Anzi, in più di un’occasione, sfruttano l’impiccio e l’impaccio del testo alla mano come un’azione scenica, dimostrando grande prontezza e una padronanza del mezzo che arriva al pubblico chiara e diretta.
Classico il testo, di grazia perfetta l’ambientazione, contemporanea la resa. Paravidino ha individuato la formula giusta con cui sdoganare il teatro di parola, qualcosa che, complice un radicato e modaiolo atteggiamento radical-chic, al giorno d’oggi fa quasi paura. Come a dire che per essere contemporanei, nel teatro dei nostri giorni, non serve necessariamente sciorinare un flusso di coscienza a testa in giù.

 
Pamela Del Grosso
30 gennaio 2014
 

traduzione Flaminia Caroli| Angelica Leo
supervisione Fausto Paravidino | Tamara Torok
mise en espace di Andrea Collavino
con Iris Fusetti |Aram Kiam | Davide Lorino | Fausto Paravidino| |Aurora Peres
direttore di produzione Flaminia Caroli

Nessun commento:

Posta un commento